Allenamento funzionale, stiffness e forza massima

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L’obiettivo del lavoro di forza nella maggior parte degli sport è il miglioramento dell’atletismo generale dell’atleta, sia dal punto di vista biomeccanico che neuromuscolare. Se effettuato correttamente, permette un efficace sostegno alla performance ed una riduzione del rischio di infortuni.

Nel precedente articolo abbiamo visto come un approccio funzionale alla forza sia più efficace rispetto all’utilizzo dei comuni esercizi solitamente effettuati in sala pesi. Questo perché utilizza movimenti e varianti in grado di dare stimoli maggiormente aderenti alla motricità ed alla gestualità delle discipline sportive; ricordate sempre che “il cervello riconosce i movimenti e non l’attività dei singoli muscoli”.

Non solo, applicando il contesto di funzionalità al lavoro per la forza è possibile allenala anche senza avere a disposizione l’attrezzatura di una sala pesi, ma prevalentemente con piccoli attrezzi o anche a carico naturale.

Ma cosa differenzia maggiormente un approccio classico da “sala pesi” ad uno più funzionale?

Ovviamente sono tanti anche i punti in comune, ma in questo articolo cercheremo di analizzare i meccanismi fisiologici che consentono di sfruttare al meglio la funzionalità dei movimenti, al fine di ottenere un allenamento più specifico alla forza e con un’attrezzatura estremamente semplice e meno costosa; questo permette di poter lavorare anche con gruppi di atleti o di prescrivere protocolli di lavoro da fare in autonomia o a casa.

Alla fine del post troverete le fonti per approfondire l’applicazione di questi concetti nell’ambito degli sport di squadra.

Perché è importante avere un livello di forza muscolare adeguata?

La risposta è semplice, cioè per ottimizzare il ciclo di allungamento-accorciamento in termini di spesa energetica e di velocità di esecuzione; nell’immagine sotto viene semplificata la differenza tra un regime di contrazione più efficiente rispetto ad uno meno efficace. In altre parole, l’incremento della prestazione deriva a seguito di un incremento del potenziale motorio dell’atleta.

Ma passiamo ad un esempio più pratico, sempre associato all’immagine sopra: nella corsa di fondo e mezzofondo è stato visto come un tempo di contatto inferiore, a pari velocità, fosse correlato ad un migliore rendimento, cioè ad una minore spesa energetica (Moore 2016, Joubert 2020). È risaputo che ciò sia correlato alla stiffness neuromuscolare, cioè alla capacità dei muscoli di effettuare il ciclo di allungamento-accorciamento velocemente (vedi angolo rosso dell’immagine sopra).

Quello che oggi sappiamo dalle ricerche più recenti (Lai et al 2015, Bohm et al 2018, Bohm et al 2019), è che l’allungamento dell’unità muscolo tendinea avviene principalmente grazie ad una modificazione della lunghezza del tendine (ciò vale per i muscoli della catena estensoria); la lunghezza del ventre muscolare subisce solo piccole modifiche durante la fase di allungamento/accorciamento.

Di conseguenza è logico immaginare come nei muscoli della catena estensoria (polpacci, quadricipite, ecc.), l’energia nella parte contrattile sia prevalentemente rivolta a massimizzare l’accumulo e la restituzione di energia elastica nelle strutture tendinee.

Questo significa le cellule muscolari (ventre muscolare), durante un allungamento/accorciamento così limitato, spendono gran parte dell’energia per modificare al minimo la loro lunghezza (lavorando in una porzione della curva forza/velocità favorevole), consentendo alle strutture connettivali (in particolar modo i tendini) di accumulare e restituire energia.

Nell’immagine sotto è possibile vedere molto bene come nella fase di appoggio della corsa, il ventre muscolare del soleo rimane quasi in isometria (linea tratteggiata); di conseguenza il fenomeno di allungamento-accorciamento (linea continua) con il conseguente accumulo-restituzione di energia elastica avviene prevalentemente nelle strutture tendinee.

Immagine tratta e modificata da Bohm S, Mersmann F, Santuz A, Arampatzis A. The force-length-velocity potential of the human soleus muscle is related to the energetic cost of running. Proc Biol Sci. 2019

Sempre nella stessa ricerca (Bohm et al 2019), è stato visto come questo comportamento permetta al muscolo di lavorare in una parte favorevole della curva forza-velocità, riducendo il costo energetico.

Livelli di forza inadeguata invece, provocano una maggior perturbazione della lunghezza del ventre muscolare, limitando l’accumulo/restituzione dell’energia elastica e aumentando le condizioni di affaticamento.

Anche la corsa in discesa è un ottimo esempio dell’importanza di elevati livelli di forza: quando lo sforzo è prevalentemente eccentrico il numero di unità motorie utilizzate è inferiore (Enoka 1997), soprattutto se reclutate ad alta velocità; potete vedere una semplice e chiarissima spiegazione del Prof di Prampero, tratto dal blog laltrametodologia.

Ne consegue che è più facile andare incontro a microlesioni delle fibre e conseguenti affaticamenti; per migliorare questo tipo di abilità, non è solamente necessario abituarsi a correre in discesa, perché gli stimoli andrebbero eccessivamente diluiti per evitare affaticamenti.

Un lavoro finalizzato ad un livello di forza ottimale, in particolar modo con enfasi nella fase eccentrica, permette all’atleta di abituare le catene ad assorbire con più disinvoltura l’impatto nella fase iniziare dell’appoggio, grazie ad una riduzione delle vibrazioni muscolari. In questo modo, l’atleta riuscirà a gestire con maggiore velocità la discesa e con un grado di affaticamento inferiore.

Attenzione, perchè dal concetto di potenza metabolica sappiamo che la corsa in discesa ha punti in comune (dal punto di vista biomeccanico e neuromuscolare) con le fasi di decelerazione nelle discipline di situazione come il calcio. Di conseguenza, le considerazioni fatte sopra possono essere valide anche per tutti gli sport in cui sono presenti decelerazioni e cambi di direzione.

Ovviamente il lavoro di forza funzionale non deve essere solamente orientato al miglioramento della performance (cioè del ciclo stiramento-accorciamento), ma anche alla riduzione del rischio di infortuni, agendo quindi sulla postura (statica e dinamica), sulle asimmetrie e sull’estensibilità delle catene.

Quali stimoli biologici per la forza? 

Come riportato più volte da Roberto Colli, Carmelo Bosco indicava come contrazioni di elevata intensità della durata di 0.7-0.8” fossero gli stimoli principali per migliorare i livelli di forza massima di un atleta; ricordo che questo tipi di stimoli, sono quelli che garantiscono il maggior numero di “responder”.

Con i movimenti della pesistica classica, per ottenere questi stimoli è necessario utilizzare carichi molto elevati, con tutte le problematiche che ne derivano (vedi paragrafi introduttivi di questo articolo). Grazie ai principi dell’allenamento funzionale invece, è possibile utilizzare il peso offerto da piccoli attrezzi, se non addirittura il carico naturale; questo grazie allo sfruttamento dell’attività dei motoneuroni gamma; lo vedremo meglio nel prossimo capitolo.

Prima di passare alle caratteristiche del carico mi preme comunque una doverosa precisazione: nelle discipline sportive, l’allenamento funzionale deve garantire principalmente sostegno, transfert e prevenzione. Per questo motivo, gli affaticamenti generati da questo tipo di lavoro, dovrebbero incidere il meno possibile sull’allenamento specifico della disciplina, in particolar modo in quei sport in cui l’attività di gara è frequente (come gli sport di squadra).

Non a caso, alcuni modelli recenti di periodizzazione della forza (come il Triphasic training) “diluiscono” questi stimoli in momenti diversi della settimana, e senza mai arrivare ad esaurimento durante le serie. In questi contesti, risulta particolarmente utile l’utilizzo del “Buffer” come indicatore del numero di ripetizioni da effettuare; vedremo nei prossimi capitoli di cosa si tratta.

Le variabili del carico 

Nell’elenco sotto sono indicate alcune delle variabili necessarie per definire un carico di lavoro di forza, al fine di ottenere gli adattamenti voluti

  • Movimento utilizzato
  • Velocità delle varie fasi (eccentrica-isometrica-concentrica)
  • Escursione dei movimenti richiesta
  • Peso o attrezzi utilizzati
  • Modalità di rapporto con l’attrezzo (impugnatura e relativo movimento)
  • Numero di ripetizioni o grado di esaurimento raggiunto (Buffer)
  • Numero di serie
  • Pause
  • ecc. 

Le variabili indicate sopra fanno capire come siano veramente tante le modalità possibili; in questo articolo ci soffermeremo su 3 aspetti fondamentali dell’allenamento funzionale.

Per primo andremo ad analizzare i motivi grazie ai quali con l’approccio funzionale è possibile ottenere stimoli di forza anche con l’utilizzo di piccoli attrezzi; poi andremo a comprendere l’importanza del lavoro sulla stiffness. Per ultimo, introdurremo il concetto di Buffer nell’organizzazione delle ripetizioni nelle serie.

Perché è possibile lavorare sulla forza con pesi ridotti

Dal punto di vista didattico, il miglioramento della Forza massima si ottiene principalmente grazie a sforzi particolarmente intensi, che reclutano una porzione elevata delle fibre muscolari della durata di 0.7-0.8” (Colli 2012); nel precedente articolo abbiamo visto come lavorando in forma monopodalica e con angoli articolari più sfavorevoli, è possibile effettuare squat con impegno estremamente elevato anche a carico naturale.

Ma la riduzione degli appoggi e l’utilizzo di angoli articolari svantaggiosi non è l’unico modo per aumentare il reclutamento delle unità motorie. Infatti, è possibile ottenerlo anche aumentando la difficoltà del movimento.

Dalla fisiologia dell’esercizio sappiamo che un aumento della difficoltà di un movimento, è percepita dal SNC, e ciò incrementa l’attività dei motoneuroni gamma. Senza addentrarci eccessivamente nell’argomento, questi hanno la funzione di allungare le fibre intrafusali aumentando la sensibilità agli stimoli.

Semplificazione dell’aumento dei livelli di contrazione muscolare a causa di una maggiore eccitabilità dovuta ad una maggiore difficoltà del movimento ed ad un incremento degli stimoli sensoriali

In questo modo incrementa il reclutamento delle fibre muscolari; non solo, a questo si aggiunge anche il fatto che ad un aumento della difficoltà del movimento, aumenta anche la sensorialità dello stesso…in altre parole, giungono maggiori stimoli sensoriali al SNC. Anche questo fattore può incidere sul reclutamento delle fibre muscolari (vedi immagine sopra).

Ma come aumentare la difficoltà del movimento?

Dall’allenamento funzionale sappiamo come questo può avvenire in diversi modi, come l’utilizzo di movimenti destabilizzanti che coinvolgono più piani, oppure grazie all’uso di piccoli attrezzi o alla riduzione/instabilità della superficie d’appoggio.

Ma facciamo alcuni esempi per chiarire meglio; prendiamo un movimento, come l’affondo, più precisamente il walking lunge. Sotto potete vedere il video in cui viene dimostrato il movimento di base; i tempi di esecuzione sono probabilmente sufficienti (superiori a 0.7-0.8”) per garantire la durata necessaria per lo sviluppo della forza massima, ma l’intensità dello sforzo è chiaramente troppo bassa.

Allora come incrementarne la difficoltà per potenziare il reclutamento delle fibre muscolari?

Una prima soluzione potrebbe essere quella di ruotare il busto durante il momento dell’affondo; l’aumento sensoriale e la percezione della maggiore difficoltà del movimento otterranno parzialmente questo effetto. Non è sufficiente?

Bene, a questo punto possiamo utilizzare un attrezzo (un kettlebell o una palla medica) per incrementare il peso da spostare. Questo può essere tenuto fermo accanto al corpo o addirittura distante (allungando le braccia); se a questo, si aggiunge anche la rotazione del corpo e/o il movimento dell’attrezzo (allontanandolo in avanti o sollevandolo in alto), è possibile comprendere come le difficoltà possano diventare particolarmente elevate.

In questo modo è possibile fornire dei veri e propri stimoli per la forza massima, ma in maniera estremamente più funzionale (cioè più “aderenti” al gesto motorio della disciplina) ed ottenuti grazie all’utilizzo di un’attrezzatura estremamente semplice.

Non solo, concentrando la difficoltà solamente sulla parte discendente o ascendente dell’affondo, o modificando i tempi di esecuzione, sarà possibile porre l’accento prevalentemente sulle fasi eccentriche o concentriche, a seconda delle necessità.

Ovviamente quello presentato sopra è un semplice esempio relativo al solo movimento dell’affondo; per chi vuole approfondire l’argomento, consiglio il testo di Alberto Andorlini (corredato da CD), nel quale è possibile trovare sia la parte teorica che numerosi esempi di progressioni esecutive.

Riuscire a lavorare sulla forza, senza la necessità di avere l’attrezzatura di una sala pesi, rappresenta per molti preparatori una soluzione ideale, soprattutto per chi lavora in ambito dilettantistico o per chi allena i propri atleti a distanza.

Prima di concludere e passare all’importante (e sottovalutata) funzione della stiffness all’interno dei movimenti funzionali, ci tengo ad effettuare 2 ultime precisazioni:

  • Maggiore è la difficoltà del movimento, tanto più basso deve essere il peso di eventuali attrezzature utilizzate; allo stesso tempo, più veloce deve essere l’esecuzione del movimento, tanto più basso deve essere il peso.
  • L’incremento della difficoltà dei movimenti dovrebbe avvenire in maniera il più possibile specifica alla disciplina; ad esempio, è inutile l’utilizzo di pedane instabili nel calcio, in quanto la difficoltà della gestione dell’equilibrio in questa disciplina non avviene dall’instabilità della superficie, ma dai contrasti e dalle intensità dei cambi di direzione.

Perchè è così importante la stiffness all’interno dei movimenti funzionali

Nell’elenco sotto vengono elencati gli movimenti funzionali, secondo quella che è la suddivisione classica:

  • Movimenti da decubito (rotolare)
  • Squat
  • Tirare
  • Spingere
  • Affondo
  • Stacco
  • Girarsi
  • Spostarsi

Nell’immagine sotto invece, è rappresentata la “versione” modificata secondo quella che è la mia opinione; sostanzialmente ho tolto la categoria “Spostarsi” in quanto la ritengo una parte molto più aderente della disciplina praticata, per questo tipico dell’allenamento specifico.

In più, ho accorpato “tirare”, “spingere” e “ruotare” in un’unica categoria (“forza orizzontale”) ed ho aggiunto la “stiffness”.

Questo perché con il termine “Forza orizzontale” si comprende meglio come lavorare su queste qualità all’interno di ogni singola disciplina; è l’esempio dei contrasti nel calcio o della spinta orizzontale nella corsa.

Il termine “stiffness” invece, si riferisce all’enfasi del ciclo stiramento-accorciamento, che determina l’efficienza e l’efficacia di un gesto…cioè quanta energia spendo e quanto più veloce sono nell’esecuzione dei movimenti (l’abbiamo già visto nella prima immagine di questo articolo).

Elasticità e reattività neuromuscolare sono 2 importanti qualità legate alla stiffness, e sono fondamentali nella maggior parte delle discipline.

L’importanza di lavorare su movimenti allenanti che pongano l’enfasi sul ciclo di stiramento-accorciamento non deriva esclusivamente dalla necessità specifica della disciplina, ma anche da ragioni fisiologiche che andremo ora a semplificare.

Il riflesso da stiramento è un meccanismo fisiologico essenziale che aiuta il riuso elastico da parte del muscolo, ed è possibile grazie all’esistenza dei fusi neuromuscolari.

Di contro, gli organi tendinei del Golgi hanno invece la funzione di inibire la contrazione muscolare nel caso in cui i tendini vengano sottoposti ad eccessiva tensione; funzione simile, è quella degli interneuroni di Renshaw, situati all’interno del sistema nervoso periferico. Questi hanno il ruolo di generare asincronia di attivazione delle attività motorie, inibendo la contrazione del motoneurone che l’ha generata (tramite un feedback negativo) ed attivando gli antagonisti.

Di conseguenza, l’inibizione degli interneuroni di Renshaw genera maggiore sincronia nell’attivazione delle unità motorie nei movimenti balistici ed esplosivi (Pettorossi 2016).

Ma con che mezzi allenanti è possibile inibire l’attività degli interneuroni di Renshaw? Riportiamo sotto una frase di Nicola Silvaggi

“Un miglioramento della sincronizzazione, con conseguente inibizione del circuito di Renshaw, si può avere attraverso esercitazioni molto intense, come ad esempio balzi pliometrici”

Nicola Silvaggi

È quindi evidente come esercitazioni per la stiffness (come i balzi pliometrici) siano in grado di migliorare l’elasticità e la reattività neuromuscolare tramite un’ottimizzazione della sincronizzazione delle unità motorie.

Non solo, come spesso ripetuto nei post di Sergio Rossi su linkedin, anomalie posturali derivate da infortuni o algie, possono attivare questi interneuroni, con una conseguente inibizione della sincronizzazione delle unità motorie; considerando che in questi contesti l’inibizione coinvolge prevalentemente un emilato, questo può portare ad asimmetrie funzionali anche non percepibili, che nel tempo possono dare origini ad infortuni e recidive.

Per tutti questi motivi, ritengo la stiffness una qualità fondamentale da “coltivare” con l’allenamento funzionale, al di là dell’importanza che può avere nell’allenamento specifico della disciplina.

È comunque importante rimarcare, che balzi ed attività esplosive vanno inserite solamente se e quando il soggetto ha livelli di forza sufficientemente elevata per sostenerli.

Determinazione del numero di ripetizioni: buffer ed altri metodi

Tutti sappiamo che il numero di ripetizioni all’interno di una serie è una delle variabili che determina il carico di lavoro; l’errore da evitare, è quello di considerare il raggiungimento del numero di ripetizioni assegnato come lo scopo della seduta.

L’obiettivo della seduta invece, deve essere quello di fornire il giusto stimolo fisiologico al fine di ottenere un miglioramento prestativo. Mi spiego meglio con un esempio; se devo effettuare 3 serie di 15 ripetizioni di squat, e con il peso utilizzato giungo già all’esaurimento alla 15° ripetizione della prima serie, allora sarà difficile che nelle 2 serie successive riuscirò ad arrivare allo stesso numero di ripetizioni.

Se invece regolo il numero di ripetizioni con l’obiettivo di interrompere la serie quando ho ancora la sensazione di effettuare 2 ripetizioni prima dell’esaurimento (in questo caso si dice “a buffer 2”), allora riuscirò con certezza ad effettuare tutte e 3 le serie con un giusto stimolo fisiologico. Il metodo “a buffer” quindi, permette di regolare sul momento il numero di ripetizioni in base all’obiettivo fisiologico che mi prefiggo dalla seduta, evitando affaticamenti che compromettano i movimenti nel breve e medio termine.

Considerando che l’obiettivo di una seduta di potenziamento è quello di sostegno alla performance, e non di raggiungere l’esaurimento, allora è possibile comprendere come determinare le ripetizioni a buffer possa essere il metodo ideale nell’allenamento funzionale.

Le origini delle serie effettuate a “buffer”

Questo metodo ha origine dal mondo del bodybuilding per adattare il numero di ripetizioni ideali in tutti quei contesti in cui non si deve giungere ad esaurimento muscolare; questo permette di poter modulare l’allenamento in maniera ideale, evitando affaticamenti che impedirebbero di raggiungere, nel medio-lungo termine, gli adattamenti voluti.

Anche se è un metodo a sensazione, è sempre necessario, una volta stabilite le caratteristiche del movimento e del carico, avere un’idea di massima del numero di ripetizioni da effettuare; questo permette di orientare lo stimolo verso l’adattamento voluto.

Ad esempio, se utilizzo un carico che mi permette di fare poche ripetizioni (da 4 a 6), allora è probabile che lavori sulla forza massima. Usando 10-12 ripetizioni invece, orienterei lo stimolo anche verso l’ipertrofia muscolare.

Clicca sull’immagine per ingrandire

È ovvio che per utilizzare questo metodo l’atleta deve conoscere le sensazioni che derivano dall’allenamento, altrimenti non riuscirebbe a comprendere quante ripetizioni manchino ipoteticamente all’esaurimento; è comunque sufficiente un po’ di esperienza per riuscire a padroneggiare al meglio il metodo.

Ma come determinare l’esaurimento (detto anche “cedimento”)?

Esistono diversi parametri per considerare il cedimento (Borgacci 2021); questo può essere:

  • Tecnico: quando si riesce a proseguire il movimento (o mantenere la posizione), ma senza la perfetta esecuzione.
  • Parametrico: quando non si riesce più ad eseguire il movimento con velocità e ritmo stabiliti.
  • Concentrico: quando solo la fase concentrica non viene più fatta con i parametri stabiliti (tecnica e velocità)
  • Eccentrico: idem come sopra, ma per la fase eccentrica.
  • Muscolare: quando i muscoli (solitamente si utilizza in movimenti monoarticolari) non riescono più ad eseguire il movimento a causa della fatica.
  • ecc.

È evidente come nell’allenamento funzionale i parametri di cedimento maggiormente utilizzati siano essenzialmente quello “tecnico” e “parametrico”, in quanto la modalità ed il ritmo esecutivo devono avere la priorità quando si allena la forza per la performance e per la prevenzione infortuni.

Il metodo funziona per protocolli con numeri di ripetizioni che indicativamente vanno da 6 a 20; infatti è evidente come se eseguissi una serie da 30 ripetizioni, sarebbe più difficile impostare un buffer 2 o 3, visto che in quei casi è difficile comprendere quando possano mancare 2-3 ripetizioni al cedimento.

Possiamo quindi considerare il metodo a “buffer” un ottimo criterio per adattare il numero di ripetizioni al livello di fatica percepita, partendo dal presupposto che a priori è comunque necessario conoscere quale possa essere pressapoco il numero di movimenti fatti in base al carico impostato.

I parametri utilizzati devono essere quelli del cedimento tecnico e parametrico, visto che la corretta modalità esecutiva è un fattore chiave all’interno dell’allenamento funzionale per la forza.

Non mi dilungo su quali debbano essere i parametri associati ai vari obiettivi allenati; per approfondire vi consiglio il webinar Il Movimento e la forza di Alessandro Lonero.

Alternative al metodo buffer

Per i principianti al lavoro di forza funzionale, è da tenere in considerazione che la priorità va data alla correttezza esecutiva; infatti, già con carichi ridotti è possibile ottenere degli evidenti miglioramenti. In questi casi è possibile partire da un numero di ripetizioni standard e seguire una progressione standard fino ad un certo livello di miglioramento, considerato ottimale per la disciplina e il livello dell’atleta; è il classico esempio dell’allenamento per la core stability per il runner.

Oltre un certo livello, è comunque necessario individualizzare il lavoro, in quanto ogni atleta (anche all’interno della stessa disciplina) è diverso dall’altro. Se si opera con un range di ripetizioni compreso tra 6 e 20, il metodo a buffer è una prima soluzione; ovviamente può anche essere organizzato in “secondi” se si utilizzano posizioni statiche come il plank o derivate dallo yoga.

In discipline stagionali in cui l’allenamento a secco riveste, in alcuni periodi, un ruolo fondamentale anche per la specificità della disciplina, è possibile trovare protocolli con un numero di ripetizioni superiori ai 20; è il caso dello sci di fondo, della canoa/canottaggio, ecc.  In questi contesti, sta alla sensibilità del tecnico/preparatore e dell’atleta stesso a trovare i giusti compromessi tra il livello ottimale richiesto a fine preparazione e la condizione attuale; questo al fine di strutturare la giusta progressione allenante.

Conclusioni ed approfondimenti

In questo lungo articolo abbiamo visto:

  • L’importanza di avere un livello di forza adeguata alla disciplina sportiva praticata: non si tratta solo di applicare tensione ai muscoli, ma di un’armonia atletica al fine di mettere nelle condizioni l’atleta di ottimizzare il lavoro specifico e ridurre il rischio di infortuni.
  • Come lavorare sulla forza in maniera proficua senza l’utilizzo di attrezzature particolari o pesi eccessivi: tutto questo sfruttando le variabili dell’allenamento funzionale.
  • Perché la stiffness è una qualità fondamentala su cui lavorare, indipendentemente da quello che è il lavoro specifico della disciplina: questo perché permette di migliorare la sincronizzazione delle unità motorie.
  • Come stabilire il numero di ripetizioni da effettuare all’interno delle serie in base al livello di esperienza e alla disciplina praticata da un atleta.

Per chi volesse ulteriormente approfondire l’allenamento funzionale, consiglio il libro di Alberto Andorlini; per chi invece volesse un approccio più pratico, relativo al gioco del calcio, consigliamo il webinar Catene miofasciali ed allenamento di Marco Giovannelli.

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Autore dell’articolo: Melli Luca, preparatore atletico AC Sorbolo, istruttore Scuola Calcio A.S.D. Monticelli Terme 1960 ed Istruttore di Atletica leggera GS Toccalmatto. Email: melsh76@libero.it

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